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mattanza dei tonni a favignana

La mattanza dei tonni di Favignana

Nota anche con il nome di “Grande Farfalla”, l’isola di Favignana forma, insieme a Levanzo e Marettimo, l’arcipelago delle Isole Egadi. Con i suoi colori dalle mille tonalità del blu del mare e il bianco delle cave di tufo, questo posto regala paesaggi capaci di lasciare senza fiato. E dona anche un altro colore, il rosso, che rimanda non solo agli scogli di argilla di Cala Rossa, ma anche ad una pratica tradizionale e ricca di storia: quella della mattanza dei tonni

La pesca del tonno rosso

Il termine mattanza deriva dal verbo spagnolo matar, che significa, non a caso, uccidere. La parola, in particolare, si usava per descrivere la giornata di risalita della tonnara, termine che fa riferimento esclusivamente alle reti, e non allo stabilimento in cui avvenivano tutte le operazioni di trattamento del tonno (come si tende erroneamente a pensare). Le reti avevano una profondità di 40 metri e si estendevano per circa 1 km

La tonnara di Favignana era nota come la regina delle tonnare, sia per i numeri di tonno pescati (nel 1964 il record fu di 14 mila tonni), sia per le dimensioni: nel 1982 venne pescato un tonno di 640 kg, il più pesante di sempre. 

Tutte le operazioni erano gestite dal Rais, termine di origine araba che significa capo o direttore. La figura del Rais era quasi sacerdotale: da lui infatti dipendeva il giusto funzionamento della tonnara e, di conseguenza, una buona annata di pesca. 

L’inizio delle operazioni

Tutto il lavoro aveva inizio ad aprile: durante questo mese, venivano preparate le reti, si aspettava poi la risalita dei banchi di tonno per effettuare mattanza a giugno. A luglio il tutto veniva disinstallato e nei mesi invernali ci si occupava della manutenzione dello stabilimento. 

Le reti venivano così organizzate: erano poste in un punto strategico, in particolare tra Favignana e Levanzo per la pesca nelle isole Egadi. I tonnaroti conoscevano perfettamente il comportamento dei tonni: i pesci, spinti dalle correnti calde e dall’istinto di riproduzione, si spostavano dall’oceano Atlantico alle coste del Mediterraneo, dove deponevano le loro uova. 

I tonni, seguendo un movimento antiorario, iniziavano la risalita delle varie camere in cui era organizzata la tonnara. Una volta raggiunte delle buone quantità, il Rais dava inizio alle operazioni di pesca. I tonnaroti controllavano quotidianamente lo stato delle reti tramite un’imbarcazione con il fondo a vetro, per poter controllare i fondali e capire quando issare il coppo (la rete di fondo usata per far affiorare i tonni in superficie).

Al momento giusto, le imbarcazioni si ponevano a cerchio intorno alla zona di pesca: iniziava così la mattanza. Durante questa pratica di pesca piuttosto cruenta, i pescatori intonavano dei canti, chiamati cialome, utili per ritmare i movimenti di braccia per mantenere la rete equilibrata. All’inizio della pratica, intonavano in particolare l’Aiamola, che invocava la protezione dei santi e di Gesù affinché la pesca andasse a buon fine. Alla fine, invece, ci si lasciava andare a canti profani e gioviali: si cantava la Lina Lina, che decantava le bellezze fisiche di una ragazza in cerca di marito (la ragazza, simbolicamente, era la tonnara che aspettava l’arrivo dei pesci).

Il trasporto e la lavorazione

Al termine della mattanza, i tonni venivano uncinati e caricati sulle barche. Le imbarcazioni tornavano o al molo, o alla camparìa, il quartier generale dei tonnaroti. La parola deriva dal verbo siciliano campare e mostrava proprio quanto la pesca fosse importante per il sostentamento degli isolani. 

Una volta giunto a terra, ecco che iniziava la prima fase di lavorazione: il tonno veniva appeso alle tettoie e lasciato dissanguare per 24 ore, per evitare sia problemi di conservazione che problemi intestinali. Veniva poi scuoiato e ripulito di tutte le interiora. 

Del tonno non si buttava via niente: le lische, ad esempio, venivano frantumate e trasformate in farina, utilizzata come concime o mangime per animali. Dalla testa invece si ricavava l’olio di tonno, usato come impregnante delle tettoie di legno nei mesi invernali. La produzione dell’olio venne però spostata sulla tonnara dell’isola Formica, a causa del fastidioso odore che provocava. Non stupisce quindi che questo pesce venisse chiamato ed è tuttora noto come il maiale del mare

Le altre parti del tonno invece venivano cotte in pentoloni in rame in acqua e sale, lasciati poi asciugare e trasportati al magazzino Torino per essere inscatolati. La conservazione avveniva prima sotto sale in barili di legno, per poi invece passare alla conservazione sott’olio, in latte dalla colorazione diversa, per distinguere il pregio delle parti utilizzate. 

Un nuovo metodo di pesca

A partire dagli anni Ottanta, iniziarono i primi problemi di pescato legati alle tonnare volanti. Le reti, infatti, venivano calate all’intercettazione dei banchi di tonno già nell’Atlantico, ed impedivano quindi al tonno di arrivare nelle acque mediterranee e di proseguire il loro ciclo naturale di vita. Ad oggi, le tonnare volanti sono il metodo utilizzato per la pesca, quello tradizionale invece si è perso: l’ultima mattanza di Favignana risale infatti al 2007.  

Le visite guidate

La storia della mattanza oggi si racconta all’ex stabilimento delle Tonnare di Favignana e di Formica, in via Amendola 29, Favignana. Il costo del biglietto è di 8€ ed è acquistabile unicamente presso lo stabilimento. Le visite sono organizzate ogni mezz’ora ed hanno una durata di circa 60 minuti. 

 

Il racconto della mattanza merita un’attenzione speciale perché rappresenta un tratto identitario delle tradizioni siciliane, capaci di fondere le influenze arabe e spagnole della storia con la cultura cristiana. Sottolinea, poi, quanto l’essere umano abbia dovuto imparare nel corso del tempo a procacciarsi cibo e di come la sfera religiosa lo abbia aiutato a legittimare queste pratiche, a volte un po’ cruenti, ma ricche di significato.

 

di Beatrice Saura

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